Il divario musicale fra scuola italiana e corrispettivo straniero, specie nel nord Europa, si è fatto ancora più evidente dopo la pandemia da Covid-19.
Come ricorda anche questo articolo di Repubblica, un milione e mezzo di studenti fra giovani e giovanissimi non hanno più studiato uno strumento in classe, né hanno approfondito la teoria musicale. Tantomeno si sono esibiti per i loro compagni, magari negli spettacoli a scuola.
(Non) sono solo canzonette
Ne parliamo in questo post perché la cosa non è secondaria: la musica e il suo studio sono uno strumento importantissimo di socializzazione e quindi con essa si insegna anche a stare in mezzo agli altri, a interagire, a fare squadra (quando si suona insieme).
Da un punto di vista pratico, la formazione di nuove generazioni di musicisti (classici e non) è anche un aspetto fondamentale dell’indotto del sistema Italia perché chi si esibisce su un palco o in un’orchestra permette, a ricasco, il lavoro di decine di migliaia di altri professionisti: tecnici e attrezzisti, personale di sala e roadie.
Di più, permette che continui l’attività redditizia di orchestre stabili, consente la creazione di colonne sonore e stacchi pubblicitari, fa entrare soldi nelle casse dei Comuni che autorizzano spettacoli dal vivo. Questi sono solo esempi che dovrebbero permettere di capire quanto siamo dipendenti l’uno dall’altro in questo network socio-economico.
Un allarme per il futuro
A proposito di economia, senza interventi strutturali ai budget delle nostre scuole i rischi sono tanti, come abbiamo visto, e nel lungo periodo. Anche in quello breve, tuttavia, si rischia di fare danno a una generazione di giovani e giovanissimi cui il terribile virus ha tolto già tantissimo in termini emozionali.
Solo investendo una buona fetta del PNRR a noi disponibile potremo correggere una traiettoria inquietante che rischia di lasciare questi nuovi italiani senza un sostegno importante, e la nostra nazione senza una attrattiva fondamentale.